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LA SARDEGNA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

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Mascherina d’ordinanza. Amuchina a portata di mano. Parlare il meno possibile, a un metro di distanza gli uni dagli altri. Niente abbracci. Figuriamoci baci.  

Anche in Sardegna è arrivato il temutissimo Coronavirus. O meglio, è definitivamente arrivata la fobia generale che questo virus porta con sé da qualche settimana, in particolare negli Stati – come l’Italia – che si sono obiettivamente trovati impreparati a far fronte a un evento simile. Più dal punto di vista sociale che sanitario, per fortuna. In Sardegna i casi sono solo due, “importati” dalla Penisola. Tanto è bastato per scatenare una generale curiosa morbosità nei confronti delle persone colpite (in particolare il primo “caso”), dimostrando ancora una volta la pochezza di tante persone e di una comunità quasi più preoccupata di mettere alla gogna queste persone e le loro famiglie, piuttosto che affrontare il reale problema. E’ il virus dell’egoismo e della banalità che fa più male di quello reale.

Nel frattempo, dopo giorni e giorni di tentennamenti, il Governo ha deciso di chiudere tutto, o quasi. Scuole di ogni ordine e grado chiuse, in tutta Italia. Come se l’emergenza avesse lo stesso valore dappertutto, anche dove magari casi non ce ne sono o sono pochissimi (come da noi, ad esempio). Come sempre, in un Italia più preoccupata dello stop al campionato di calcio che del contagio, a rimetterci sono i cittadini. Eppure – ci chiediamo – dato che la paura è che l’epidemia si dilaghi, perché si chiudono certe attività e non altre? Il contagio ha (avrebbe) meno possibilità di propagarsi in certi luoghi rispetto ad altri? Sembra sempre che in Italia le decisioni vengano prese (in ritardo) in modo sbagliato e quasi incosciente.

In Sardegna ci si adegua. Che non sia mai siamo pronti a decidere qualcosa da soli. Qui le persone continuano la loro vita, quasi scocciate se la loro routine viene interrotta da uno “stupido virus, poco più che una normale influenza”. Si rievocano nonni e bisnonni che hanno affrontato la guerra (altro che coronacoso!), si ricercano i rimedi delle nonne contro ogni tipo di malattia, si protesta perché ci dobbiam tenere i figli in casa, nessuno rinuncia ad uscire, ad andare a cena fuori, alla partita di calcetto o di padel. Sarebbe anche una cosa positiva, se non fosse che nel frattempo ci si scanna per l’ultimo flacone di Amuchina venduto a 30 euro.

Questa è la Sardegna ai tempo del Coronavirus. Un po’ seccata e un po’ annoiata. Con un occhio alla morbosità di conoscere i dettagli delle persone (purtroppo) colpite e un occhio alle solite cose di tutti i giorni. Preoccupati ma non troppo. Con la speranza che il Cagliari torni a vincere e che presto le scuole riaprano. Insomma, come ci accade da secoli, di affrontare il vero problema non ci pensiamo neanche.

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