Sono anni, decenni, che sentiamo parlare di turismo e cultura dell’accoglienza in Sardegna. Ogni anno, puntualmente, dobbiamo però verificare che nella nostra Isola accogliere i turisti è sempre più un optional. Oggi vogliamo riportarvi l’incredibile esperienza di una turista sul Trenino Verde, un episodio di scellerata maleducazione che testimonia bene quale sia spesso la reale “cultura dell’accoglienza” sarda. Lo sappiamo, non è giusto generalizzare, ma possibile che regolarmente dobbiamo fare i conti con questo modo di pensare così chiuso che sembra “tipicamente sardo”?
Sardegna, agosto 2014.
Il mio viaggio alla scoperta dell’isola continua.
Dopo la meravigliosa esperienza dell’anno scorso (e di quelli precedenti), decido di addentrarmi ancora una volta nell’entroterra. Con il mio compagno e un gruppo di amici scelgo il Trenino Verde, da Perfugas verso il Lago Liscia, dove un battello e gli ulivi millenari ci attendono.
Paesaggi splendidi ma organizzazione piuttosto deludente: nel viaggio verso casa penso a che taglio dare all’articolo che scriverò su Branditup Travel.
Mentre saliamo sul treno del ritorno, una signora sarda occupa 10 posti per i suoi amici rimasti indietro e che, prima o poi, arriveranno. Nei 54 euro pagati per la giornata non è stato contemplato il posto assegnato, e questo può dare adito a scene da far west per chi vuole rigorosamente viaggiare con tutta la sua tribù attorno. Gentilmente, chiedo alla signora se può cedere uno dei 10 posti che ha occupato (quello con più spazio per le gambe) ad un settantenne che viaggia con noi e ha due ernie al disco che gli causano forti dolori. Lei non solo non mi risponde, ma fa cenno a tutti i suoi amici ritardatari di affrettarsi, si gira verso il marito e dice: “Ma che vuole questa?”.
Decido di andarmene, rassegnata all’egoismo e alla maleducazione, ma al “questa” sono tornata indietro.
“Io non mi chiamo ‘questa’, non sono una stronza che passa per strada, sono una persona che ti ha chiesto una cortesia e puoi rivolgerti direttamente a me se mi devi dire qualcosa.”
Allora, per la prima volta, mi rivolge la parola: “Stronza a chi?”
Immaginando che non sia audiolesa, ma che stia facendo la furba, riprovo ad andarmene.
Interviene il marito, che a sua volta sta occupando altri posti sbarrando i sedili con le braccia e impedendo alla gente di sedersi: “Signora, veda di calmarsi”. Il tono è quello del maschio che vuole dimostrare a tutti di saper difendere la propria femmina, e sottintende: “Altrimenti se la vede con me”.
Mi sento proiettata in una rissa preistorica, ma senza le clave.
Arriva il controllore, minaccia di chiamare i carabinieri perché io “ho parlato male”: a questo punto ho la certezza che la corregionalità in alcuni casi è più forte della buona fede e quando mi dice: “Si calmi perché altrimenti ci penso io a calmarla” chiedo: “E mi spieghi un po’, quale sistema ha intenzione di usare per calmarmi?”
Non sapendo che dirmi, mi apre la strada per fare quello che stavo cercando di fare da qualche minuto: cambiare vagone, interdetta dalla relazione ottocentesca uomo/donna in cui mi sono trovata immersa. Appena me ne vado, alcuni amici che sono rimasti lì mi riferiscono che la signora occupaposti alle mie spalle dice ridendo: “E tornatene da dove sei venuta”.
Ringrazio il cielo di non averla sentita.
Ho pagato 54 Euro per avere un servizio scadente, ero lì per scrivere un articolo sul turismo in Sardegna, ho chiesto gentilmente un posto per una persona con problemi. La risposta è stata: “Tornatene da dove sei venuta”. L’ho fatto, sono tornata da dove ero venuta, e continuo a pensare a tutta la gente che rifiuta chi viene “da fuori”. Rifiuta i connazionali, figuriamoci gli stranieri, indipendentemente da quello che sono lì per fare.
C’entra poco il fatto che i sardi abbiano una triste storia di dominazione da parte di chi arriva da fuori, perché questa reazione ce l’hanno anche persone senza un retaggio storico così pesante da dover smaltire.
Il mio pensiero va a tutti coloro che “tornatene da dove sei venuto” se lo sono sentiti dire una, due, tre, mille volte, o che tutti i giorni se lo sentono addosso. Il conforto di restare tra simili, la tranquillità di condividere le stesse regole sociali, la forza della ragione di sapersi a casa propria, l’arroganza degli –ismi.
Per la prima volta in vita mia mi sono trovata nei panni della turista (e non solo della cittadina) che si oppone a quella che crede un’ingiustizia o una maleducazione e la risposta è stata: vattene.
Secondo me, Italia, la risposta è sbagliata. Capiti in Sardegna, in Alto Adige, in Umbria o in qualsiasi altro luogo.
Voi che ne pensate?
—
—